Messa quotidiana

Omelia 20-9-15

Maria Madre addolorata, prega per noi

XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Anno B

L’Autorità è servizio

La persecuzione del «giusto» è il tema della la lettura.  La vita del giusto è la più radicale contestazione dell’«empio», qualunque sia la forma con cui l’empietà si manifesta.  Per questo motivo l’empio non sopporta il giusto, lo giudica fastidioso, lo vorrebbe cancellare dalla faccia della terra, perché lo percepisce come una «sfida». Il tema del giusto perseguitato si ricollega ad altri temi assai significativi come i carmi del Servo di Iahvè (v. domenica precedente) e sta alla base del racconto evangelico della passione della quale nel vangelo di oggi si fa l’annuncio.
Gli Ebrei si erano fatta una concezione politica dell’opera del futuro Messia.  Egli sarebbe comparso sulle nubi del ciclo per mettere in fuga tutti i nemici e fare del regno di Israele un  regno potente, su tutti gli altri.  La predicazione e l’azione di Gesù andavano, invece, in tutt’altro senso. Il suo annuncio è chiaramente un annuncio di salvezza dal male radicale, il peccato, e non la restaurazione di una dominazione politica.

Non la ricerca dei primi posti…
La parola che Gesù rivolge nel vangelo agli apostoli è una puntuale contestazione ad una concezione del regno basata sul potere, sugli onori, sui primi posti.  Ma la contestazione più radicale è la sua stessa vita. Gesù fa sua la missione del Servo. Mite ed umile di cuore,  egli annuncia la salvezza ai poveri (Lc 4,18), è in mezzo ai suoi discepoli «come colui che serve» (Lc 22,27), pur essendo loro «Signore e Maestro» (Gv 13,12-15), e giunge fino al colmo delle esigenze  dell’amore che ispira questo servizio, dando la sua vita per la redenzione dei peccatori.
La parola e l’esempio di Gesù risolvono il problema delle precedenze in clima cristiano.  Gesù rifiuta categoricamente ogni ambizione di dominio sia per sé che per la Chiesa.
L’unica autorità della Chiesa ed in seno ad essa è quella dell’ultimo posto, dell’umile servizio  (v. 35).

… ma realizzare il bene comune
L’autorità: ecco una delle realtà fra le più ambigue e quindi fra le più contestate del nostro tempo, sia a livello civile che ecclesiale.  C’è chi la esercita per ambizione, per volontà di dominio, per ricerca di gloria; e chi la ritiene un servizio per il bene comune. Tuttavia questa ambiguità non ha il suo fondamento nel potere e nell’autorità in quanto tali, ma nell’atteggiamento di chi li brama e li esercita.
Accolta ed esercitata con le intenzioni e con i propositi di cui parla Cristo, l’autorità appare per quello che è nel piano di Dio: un servizio.  Servizio del bene comune di cui chi è a capo è costituito responsabile; servizio degli uomini che chi è in autorità serve, badando che ognuno contribuisca al bene di tutti.
Se l’autorità è esercitata secondo la verità, che la giustifica umanamente agli occhi degli uomini, dovremmo considerare colui che la esercita come uno a cui si addice la parola del  Signore: «È a me che l’avete fatto»; e considerare la sua fatica come una fatica cristiana e pasquale anche se l’autorità di cui si parla è puramente laica e profana.

L’autorità contestata
Tutto questo vale in primo luogo per la Chiesa, che è «diakonia», vale a dire, comunità di servizio.  Come Gesù Cristo è servo perché salvatore, così la Chiesa è serva perché sacramento di salvezza. Essa non può vivere avendo per fine la propria grandezza, ma esiste solo come servizio per la comunione di Dio con l’umanità. Un servizio di unità, di carità, di verità al mondo intero.
Tocca alla gerarchia, ordinariamente, fare da segno di unità e da garante della verità; ma la  critica spesso si cristallizza attorno all’autorità che è contestata da più parti.  Gli uni trovano che oggi i cambiamenti sono troppo rapidi o troppo profondi, altri perdono la pazienza di fronte alle lentezze ed al carattere superficiale delle riforme, e la grande massa dei fedeli accetta l’evoluzione senza comprendere bene cosa succede e perciò ne resta traumatizzata.
In profondità, al di là delle discussioni sul suo modo di agire e di esistere, quello che è in discussione è l’autorità stessa «gerarchica».
Alcuni sognano una Chiesa puramente carismatica, altri pensano l’autorità ecclesiastica sul  modello di quella democratica che è basata sul popolo e regolata da esso, alcuni negano  semplicemente l’autorità in nome di un anarchismo che va serpeggiando.
Eppure il ministero gerarchico è una partecipazione vera, anche se misteriosa, dell’attività con cui Cristo istruisce e costruisce il suo corpo.

I cristiani deboli

Dal «Discorso sui pastori» di sant’Agostino, vescovo
(Disc. 46, 13; CCL 41, 539-540)

Dice il Signore: «Non avete reso la forza alle pecore deboli, non avete curato le inferme» (Ez 34, 4).
Parla ai cattivi pastori, ai falsi pastori, ai pastori che cercano i loro interessi, non quelli di Gesù Cristo, che sono molto solleciti dei proventi del loro ufficio, ma che non hanno affatto cura del gregge, e non rinfrancano chi è malato.
Poiché si parla di malati e di infermi, anche se sembra trattarsi della stessa cosa, una differenza si potrebbe ammettere. Infatti, a considerare bene le parole in se stesse, malato è propriamente chi è già tocco dal male, mentre infermo è colui che non è fermo e quindi solo debole.
Per chi è debole bisogna temere che la tentazione lo assalga e lo abbatta, Il malato invece è già affetto da qualche passione, e questa gli impedisce di entrare nella via di Dio, di sottomettersi al giogo di Cristo.
Alcuni uomini, che vogliono vivere bene e hanno fatto già il proposito di vivere virtuosamente, hanno minore capacità di sopportare il male, che disponibilità a fare il bene. Ora invece è proprio della virtù cristiana non solo operare il bene, ma anche saper sopportare i mali. Coloro dunque che sembrano fervorosi nel fare il bene, ma non vogliono o non sanno sopportare le sofferenze che incalzano, sono infermi ossia deboli. Ma chi ama il mondo per qualche insana voglia e si distoglie anche dalla stesse opere buone, è già vinto dal male ed è malato. La malattia lo rende come privo di forze e incapace di fare qualcosa di buono. Tale era nell’anima quel paralitico che non poté essere introdotto davanti al Signore. Allora coloro che lo trasportavano scoprirono il tetto e di lì lo calarono giù. Anche tu devi comportarti come se volessi fare la stessa cosa nel mondo interiore dell’uomo: scoperchiare il suo tetto e deporre davanti al Signore l’anima stessa paralitica, fiaccata in tutte le membra ed incapace di fare opere buone, oppressa dai suoi peccati e sofferente per la malattia della sua cupidigia.
Il medico c’è , è nascosto e sta dentro il cuore. Questo è il vero senso occhio della Scrittura da spiegare.
Se dunque ti trovi davanti a un malato rattrappito nelle membra e colpito da paralisi interiore, per farlo giungere al medico, apri il tetto e fa’ calar giù il paralitico, cioè fallo entrare in se stesso e svelagli ciò che sta nascosto nelle pieghe del suo cuore. Mostragli il suo male e il medico che deve curarlo.
A chi trascura di fare ciò, avete udito quale rimprovero viene rivolto? Questo: «Non avete reso la forza alle pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite» (Ez 34, 4). Il ferito di cui si parla qui è come abbiamo già detto, colui che si trova come terrorizzato dalle tentazioni. La medicina da offrire in tal caso è contenuta in queste consolanti parole: «Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione ci darà anche la vita d’uscita e la forza per sopportarla» (1 Cor 10, 13).

LITURGIA DELLA PAROLAPrima Lettura  Sap 2, 12.17-20
Condanniamo il giusto a una morte infamante. Dal libro della Sapienza
[Dissero gli empi:]
«Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo
e si oppone alle nostre azioni;
ci rimprovera le colpe contro la legge
e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta.
Vediamo se le sue parole sono vere,
consideriamo ciò che gli accadrà alla fine.
Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto
e lo libererà dalle mani dei suoi avversari.
Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti,
per conoscere la sua mitezza
e saggiare il suo spirito di sopportazione.
Condanniamolo a una morte infamante,
perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà».

Salmo Responsoriale
    Dal Salmo 53
Il Signore sostiene la mia vita.

Dio, per il tuo nome salvami,
per la tua potenza rendimi giustizia.
Dio, ascolta la mia preghiera,
porgi l’orecchio alle parole della mia bocca.

Poiché stranieri contro di me sono insorti
e prepotenti insidiano la mia vita;
non pongono Dio davanti ai loro occhi.

Ecco, Dio è il mio aiuto,
il Signore sostiene la mia vita.
Ti offrirò un sacrificio spontaneo,
loderò il tuo nome, Signore, perché è buono.

Seconda Lettura
   Gc 3,16-4,3
Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia.

Dalla lettera di san Giacomo apostolo

Fratelli miei, dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia.

Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni.

Canto al Vangelo   Cfr 2Ts 2,14
Alleluia, alleluia.
Dio ci ha chiamati mediante il Vangelo,
per entrare in possesso della gloria del Signore nostro Gesù Cristo.
Alleluia.

Vangelo   Mc 9, 30-37
Il Figlio dell’uomo viene consegnato… Se uno vuole essere il primo, sia il servitore di tutti. 

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.
Giunsero a Cafàrnào. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».
E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».